Antifascista convinto, Nazzareno Ercoli, non aveva mai amato il popolo tedesco sin dalla prima guerra mondiale che aveva combattuto in
trincea in nord Italia. Rimasto paralitico a causa di una malattia, aveva dovuto stabilirsi con moglie e figli a casa di alcuni parenti in località “la Sonnina” a Genazzano. Nel ′44, dopo il cedimento del fronte di cassino, a Genazzano in località “Colle Comare”, non lontano da “La Sonnina”, due soli soldati tedeschi erano stati lasciati per difendere la ritirata delle truppe tedesche e non permettevano alle truppe delle forze alleate di passare attraverso quel fronte. Furono proprio questi due soldati che, ubriachi e allo stremo delle forze, irruppero, la mattina del 4 giugno in casa di nazareno pretendendo il bestiame. Nazareno, seduto sulla mangiatoia della stalla, aveva con sé una pistola dei tempi della grande guerra e quando vide uno dei due soldati entrare e puntargli contro la mitraglietta estrasse la pistola e lo uccise, il secondo soldato, nascosto dietro la porta, sparò contro il paralitico ferendolo a morte. All’udire degli spari accorsero tutti i parenti che erano in casa e, armati di forcine, asce, bastoni e coltelli, colpirono a morte anche il secondo soldato tedesco. I corpi furono seppelliti in un bosco nelle vicinanze. La morte dei due soldati permise alle truppe degli alleati di passare da quel fronte e poter proseguire con la Liberazione di tutta la zona.
RESISTERE- SABOTARE
Dopo l’8 settembre a Genazzano, molti degli iscritti al Partito Comunista cercheranno di dar vita
ad un vera e propria resistenza. Ma all’inizio i resistenti genazzanesi non riescono ad organizzarsi a causa della
frammentazione dei diversi gruppetti. In seguito essi si organizzano nel Gruppo di Azione di Genazzano che fa capo a ‘Checchino’ Grillini di Cave. Non si può parlare di un vero e proprio nucleo che esegue azioni armate, ma tra i compiti che gli vengono affidati spesso ci sono azioni isolate di sabotaggio lungo le strade principali, reperimento armi, lavori di monitoraggio del territorio e di intelligence, comunicandone i resoconti ed informazioni a nuclei più grandi operanti a Paliano e Palestrina. Le direttive per il reperimento delle armi vengono date da Giuseppe Emilio D’Amico. Seguendo l’esempio delle bande della capitale a Genazzano i partigiani decidono di ritirarsi dalla vita normale in paese e vivere in clandestinità, è infatti divenuto pericoloso vivere in un posto dove ci si conosce tutti, essendo ormai noti per le loro simpatie verso la Resistenza. Le campagne e le piccole proprietà di terreni dei partigiani fungono da nascondiglio, in particolare nella località genazzanese denominata “La Selva” essi stabiliscono la loro base logistica. Da questa località sono facilmente raggiungibili, attraverso
sentieri conosciuti solo a gente del posto, altri paesi limitrofi attivi nella lotta. Numerose spiate dei fascisti locali saranno la causa del progressivo sgretolamento della resistenza genazzanese… la loro prima e unica azione armata contro i tedeschi il 5 giugno ’44, in territorio di San Vito Romano.
FINCHE C’E’ VITA, C’E’ SPERANZA.. – LAMBERTO LAIT
A diciannove anni, Lamberto diventa staffetta: in costante contatto con i gruppi della resistenza romana, svolge svariati compiti: accompagnare militari alleati paracadutati sulle nostre zone verso le linee alleate; trasporare armi; svolegre attività di propaganda per il CLN. Il 26 novembre del 1943 fu chiamato a presentarsi a via Tasso ma intuendo e in parte conoscendo la possibile sorte si nasconde . Il 6 dicembre 1943 fu anche arrestato dai tedeschi a Genazzano…
Dal suo diario “Mi trovo a S. Vito da 35 giorni e vicino al fiioco mi accingo a scrivere le mie sciagure e le mie fortune senza tener conto del viaggio a piedi da Roma a Genazzano del l0 settembre scorso. Esse hanno inizio il 25 settembre… fummo fermati da vari tedeschi che ci fecero le perquisizioni senza trovarci nulla addosso, dato che io arrevo ben nascosto I’arma. Siccome era I’ora det coprifuoco fummo costretti a tornpre a casa e parfire molto più tardi. La nosfra msta era la montagna ma, mentre
passavamo a S. Savina, un contadino ci mostrò una grotta ben nascosta dove prendemmo alloggio. Subito iniziammo i lavori di attrezzamento, tre feci un rudimentale tavolo ed un sedile con bastoni. Per farvi reggere gli oggetti sopra bisognava fare un particolare studio di equilibrio. Durante la notte rnolti ragni sceglievano i nostri corpi per le loro passeggiate notturne, ma fatta eccezione di questi e della terra che trovavamo nella minestra, passammo una diecina di giorni molto bene. Ci scappava aache qualche favolosa partita a poker alla luce del lumicino ad olio con delle carte unte e bisunte.. Dopo una decina di giorni, essendo tutto calmo, uscimmo fuori e tornammo a casa. Mi misi subito in contatto con i compagni di Genazzano ed incominciammo le nostre attività di partigiani. Mi misi subito in movimento in cerca di armi e munizioni… vado a Palestrina a portare la stampa ai compagni di lì. il giorno stesso alcuni compagni operano un sabotaggio nei depositi di munizioni tedeschi sulla strada di Valmontone asportando qualche centinaio di bombe a mano ed altro materiale..Venerdi 2ó in mattinata appena fatta colazione sappiamo che le S.S. sono giunte a Genazzano e ci cercano (hanno catturato D’Amico il 24).. Lidia ci dice che le S.S. hanno visitato le nostre €ase e non trovando nessuno, hanno lasciato a ciascuno un biglietto per presentarsi al Comando di Via Tasso a Roma… Mio zio ha awertito il convento dei Cappuccini di Paliano per farmi ricoverare coli ma infine vado a S. Pio. Quivi passo nove giorni di solitudine. Durante il mio soggiorno al convento falsi{ico la mia carta d’identità in tal guisa:. Nome: Stiamozzi Agostino.. Professione Sacerdote..
Lunedi 6 Dicembre, verso sera, dato che nessuno ci cerca più, stabilisco di tornare a casa… Mentre parliamo dei fatti accaduti, tutto d’un tratto sentiamo salire le scale e si prerentano dentro casa diversi tedeschi armati con fucili mitragliatori imbracciati e I’interprete. Nemmeno facciamo in tempo ad alzarci che si sono presentati in cucina ed hanno aperto tutte le stanze. L’interprete si rivolge a mia madre e:
E’ questa casa Ait?
Si, risponde mia madre
Allora si rivolge a me:
come vi chiamate voi?
Subito mi alzo e con grande indifferenza rispondo: Stiamozzi Agostino.
…
Finito questo interrogatorio mi invita a seguirlo. Allora non so quale forza divina abbia sorretta la mia mamma e me finchè non ci buttassimo l’uno nelle braccia dell’altro. Entrambi siamo rimasti indifferenti: io che scendevo le scale tra i tedeschi armati e mia madre che era rimasta nel pianerottolo coll’interprete che la interrogava. Appena giunsi nel cortile vidi uscire da ogni parte tedeschi armati fino ai denti, che avevano circondato tutta la casa.. Incominciarono a perquisire tutte le abitazioni per cercare Ait Lamberto. Si puo comprendere il mio stato d’animo.. Chiamò un sergente e mi consegnò a lui dicendomi:
– per ora andate al forno a lavorare. Domani sarete interrogato dal comandante. E non tentate di fuggire che è peggio- la sentinella mi condusse a caricare il pane sui camion… Tentai quasi di dirgli la verità e già avevo aperto la bocca per parlare che pensai che “finchè c’è vita c’è speranza” e ritornai nel panificio.. Qui si trovavano a lavorare altri di Genazzano. Appena mi videro fecero per dirmi qualcosa ma io non diedi loro il tempo e molto piano dissi a denti stretti:
– Voi non mi conoscete!
Il camion che carichiamo è vicino ad un cancello che si apre sopra una scarpata sulla strada
provinciale. Ma poiché il cancello è coperto da un altro camion, non posso vedere se aperto o no. Perciò domando, sempre pianissimo a quei di Genazzano:
– E aperto quel cancello?
-si
– Si vede nessun tedesco che viene in su?
-No
Do uno sguardo alla mia sentinella. Essa legge a due passi da me, un libro voltandomi le spalle. Con fare indifferente vado giù, entro nel cancello e fingendo di cercare un luogo nascosto mi dirigo verso la scarpata. Molti tedeschi intenti al lavoro mi vedevano, ma non facevano caso a me. Arrivo sul ciglio della scarpate. Mi sembra che rni si debbano spezzare i nervi tanto sono tesi. Ho fatto una decina di metri prima di giungere giù ma a me sono sembrati un centinaìo. Metto il piede nella scarpate e mi butto giù a corpo morto. Finisco in mezzo alle spine che sono sul ciglio del muro che sovrasta la strada. Mi alzo in piedi e spicco un salto giù dal muro alto tre o quattro metri. I pantaloni si impigliano fra le spine e stò per cadere a testa in giù. Mi aggrappo con la mano sinistra alle spine dando qualche sgambetto cado in piedi sulla strada. Di corsa l’attraverso..
BARA numero 319
Giuseppe Emilio D’Amico nasce a Genazzano nel 1904 da una famiglia di contadini. Nel ’21 si iscrive al neonato P.C.I. di Gramsci. Con l’instaurazione della dittatura fascista, a causa del suo attivismo nel partito, è costretto a vivere sempre in allarme.. Lavora presso il mulino Raganelli, ricca famiglia di proprietari terrieri, di Genazzano e subito fa notare le ingiustizie subite da lui e dai suoi colleghi al Mulino. Inizia la guerra ed Emilio si attiva nella propaganda antifascista, insieme ad altri “compagni” ascoltando radio Londra. Nel luglio del ’43, dopo l’arresto di Mussolini, intensifica ancor di più l’attività di propaganda, per cui Raganelli, temendo un’ondata di scioperi nei suoi stabilimenti, lo licenzia. L’8 settembre del ’43 i genazzanesi festeggiano in piazza l’evento ed in quella occasione D’Amico incontra Virgilio Raganelli e tra i due si accende una violenta lite. Da questo momento in poi inizia la clandestinità di Giuseppe Emilio D’Amico, l’accusa di lite violenta è solo il pretesto per poter eliminare un personaggio scomodo. La situazione peggiora ulteriormente con l’occupazione del paese da parte dei tedeschi. Egli continua comunque la sua attività partigiana nascosto nelle campagne della “Selva”, nel casolare di famiglia…
I suoi amici e compagni, intanto, incontrandolo di nascosto ricevono le direttive per le varie azioni e soprattutto per il reperimento delle armi che vengono distribuite e scambiate con gli altri gruppi combattenti. Ormai le sue visite a casa sono rare, i fascisti e i tedeschi lo cercano ovunque, sua nipote ogni giorno gli porta un po’ di cibo e messaggi di ogni genere. La mattina del 24 novembre del ’43, una delle poche volte che decide di tornare a casa per salutare la madre, gli è fatale. Una donna del paese che è in stretto contatto con i fascisti e i tedeschi lo fa arrestare…
Da questo momento in poi D’Amico è in mano ai tedeschi e nessuno lo rivedrà mai più. I compagni della “ Selva ”, informati dell’accaduto, subito si attivano per organizzare un agguato alla camionetta che lo trasferisce a Regina Coeli ma i tedeschi, intuendo un possibile attacco, non passano per Palestrina ma per Tivoli e il piano della sua liberazione fallisce.
Emilio viene condotto a Roma al 3° braccio di Regina Coeli e d’ora in avanti di lui si perdono le tracce. I detenuti di questo braccio, infatti, non vengono iscritti nei registri e nessun secondino o poliziotto italiano vi ha accesso, qui Kappler. Sui giorni della sua detenzione non sappiamo nulla. Il 24 marzo alle ore 14.00, insieme ad altri detenuti, viene fatto salire sul camion che lo conduce alle Fosse Ardeatine. Con altre 334 persone Emilio D’Amico condivide un viaggio senza ritorno. Viene fatto scendere dal camion con le mani legate dietro la schiena, condotto nelle gallerie e ucciso con un colpo alla nuca. Giuseppe Emilio D’Amico viene riconosciuto nel settembre del ’44 tra le vittime delle Fosse Ardeatine. Il suo corpo giace nella bara numero 319.
LA STAFFTTA OLGA
Giuseppa Rueca, nota come Olga, nasce il 13 giugno 1911. il Padre, Titta, è uno scavatore di tufo e molte delle cantine tufacee ancora oggi presenti a Genazzano sono opera sua. Prima di sei figli, Olga fin da giovanissima segue il padre nella sua attività politica. Con l’uccisione di Matteotti si avvia il forte clima di repressione fascista e dunque si acuisce la repressione a tutti i livelli di coloro che hanno un’altra fede politica, contrapposta a quella fascista. Iniziano così atroci sofferenze e ripercussioni per la famiglia Rueca e per Titta in particolare che spesso viene purgato, fustigato e arrestato per la sua appartenenza politica. Nei ricordi di Giuseppa c’è l’arresto del padre da parte dei fascisti locali e il suo rifiuto di gridare “ viva Mussolini” difronte alla promessa di rilascio. Giuseppa, essendo la più grande delle figlie, sente maggiormente la responsabilità di aiutare il padre in questa ingiusta situazione di oppressione. Titta per fuggire dalle angherie fasciste si rifugia in
montagna e il segnale convenuto per poter rientrare in casa e rifornirsi di cibo è la presenza o meno di un lenzuolo alla finestra.
L’8 settembre 1943 Titta viene arrestato mentre si trova all’osteria, arrivano alcuni fascisti, lo prendono e con la forza lo portano davanti alla propria abitazione presso il Senile e li viene fustigato davanti agli occhi dei figli e della moglie. Durante tale supplizio la figlia Maria, ancora giovanissima, vedendo il padre torturato, con un impeto d’ira strappa il fucile dalle mani di uno degli aguzzini e lo getta per terra. Giuseppa diventa staffetta, diventa OLGA. Si muove tra i gruppi di zona e quelil dei comuni limitrofi. Mette a rischio la sua vita senza esitazioni. Diverse volte Olga, insieme la sorella Maria, si reca a consegnare messaggi per conto della Banda di Genazzano a Grillini di Cave, referente della Resistenza locale. Un giorno vengono fermate da alcuni fascisti presso il ponte di Cave e grazie ad una scusa riescono ad eludere il posto di blocco. L’attività di Olga come staffetta è stato il suo maggiore impegno nel periodo dell’occupazione. Con la fine della guerra la famiglia Rueca
rimane legata fortemente al PCI, lei viene nominata madrina della prima bandiera rossa riesposta a Genazzano dopo il fascismo, quella stessa bandiera che avvolgerà, nel 1960, il corpo di Titta Rueca nella bara, durante il funerale laico. Giuseppa Rueca, la staffetta Olga, muore a Genazzano il 29 maggio 2007.
ARMI per LA RIVOLUZIONE
“ … Facevamo le riunioni alla casetta di Emilio ( D’Amico) in campagna, parlavamo delle armi, le andavamo a prendere alla Breda. Andavamo con il treno fino a Colonna, poi tutto a piedi perché era tutto bombardato. Andavamo io , ‘ Spaccacipolle’ ( Giorgio Lucci), Giulio ‘ Jo puorcio’ ( Giulio Lucci), partivamo di giorno, poi quando era notte entravamo in una tenuta, da lì scavalcavamo un muro e c’era un guardiano che ci dava i fucili mitragliatori… le balle erano sei e noi mettevamo tre fucili per ogni balla. Poi scendevamo alla stazione di Colonna e caricavamo le balle sui camion dei tedeschi, i quali non si accorgevano di nulla perché noi dicevamo che portavamo le balle per i cavalli. Alla Cecchignola ci sono andato una volta, eravamo cinque persone, portevamo delle lunghe mantelle, una ce l’aveva data il padre de ‘ Baierino’ … Lì un tenente ci consegnò dieci fucili e ce li siamo messi due a persona ‘ pè cuollo ‘ ( in spalla) sotto le mantelle.”
“… non abbiamo mai fatto azioni con quelle armi, quelle armi ci servivano per la rivoluzione”..
poi il 5 Giugno 1944 prima della liberazione le armi vengono usate quando a Genazzano arrivarono i soldati francesi.. “A San Vito, ai Piccoli Colli, c’era un villino dove stavano i tedeschi, noi eravamo cinque o sei persone e ci siamo andati con un tenente francese e un altro soldato, eravamo armati. Ma sulla strada il tenente si è messo a guardare con il cannocchiale e gli è arrivata una mitragliata, cosi c’io semo n’collato’ con la camionetta dell’altro francese e lo abbiamo portato a Palestrina, ‘ semo fatto na buca pe abbelaio (seppellirlo)’ a Quadrelle ( località nel territorio di Palestrina), ce ne stavano sepolti tanti altri.”
LIDIA
Lidia Ciccognani e il marito erano in contatto con il Comitato Liberazione CLN. Dopo l’arresto di Emilio D’Amico nel novembre del ’43 , Lidia ed Enrico lasciarono Genazzano per poi tornarvi a marzo del ’44. Ospitarono in casa il commando di paracadutisti, in tutto dieci uomini, con a capo Alfredo Michelagnoli, un ufficiale arruolato per organizzare servizi di collegamenti ed informazioni agli alleati. Tra le sue piu’ importanti operazioni ricordiamo l’individuazione del deposito di armi tedesco a Valmontone poi bombardato ed il dislocamento di prigionieri sovietici pronti a combattere con gli alleati, da Monterotondo nelle nostre zone. Dal libro “MISSIONE ANZIO” di MICHELAGNOLI
“Paliano è l’ultimo paesino della provincia di Frosinone: noi dobbiamo raggiungere Genazzano che è il primo paese della provincia di Roma, dove progetto di stabilire una delle nostre prime basi operative… Il mio recapito qui è nella casa di Lidia Ciccognani, una donna sicura e coraggiosa che ci è stata anche in seguito di inestimabile aiuto. Basti pensare che si è recata a Roma decine di volte con messaggi segreti facendosi trasportare perfino da automezzi tedeschi di passaggio, e sfidando ogni volta una morte sicura.”
PANE PER IL FRONTE
IL pane ha giocato un ruolo chiave nella guerra per Genazzano. La citta diventa dal 43 ‘il forno’ dei fronti di Anzio e Cassino. I tedeschi requisiscono molti forni e usano grano proveniente dalle coltivazioni della circostante Valle del Sacco. Non solo. La pineta di fronte al Castello viene utilizzata come riserva di legname per le cucine da campo e per i forni mobili “Weiss” della Bakeri-Kompanie che giunta a Genazzano nel novembre del 43 produceva pane per fronte di Cassino. I forni mobili erano custoditi nel castello ed interdetti alla popolazione. Il pane era depositato presso il Castello Colonna, intanto trasformato in sede del Comando tedesco.
SALVARE L’ARTE
Nel convento di San Pio- gestito dai padri Agostiniani irlandesi, furono nascoste in gran segreto – per volere di Mussolini- varie opere d’arte provenienti da Palazzo Venezia da Galleria Borghese, e da Galleria Spada oltre che dalla Camera dei Fasci e dall’Archivio dell’Africa Italiana per preservarle dai possibili bombardamenti alleati su Roma. In parte trafugate dai tedeschi in ritirata nel 1944.
Se Viveva cosi…
Tra 8 Settembre 43 3 Novembre Tedeschi occupano Genazzano. “I Tedeschi a Genzzano saranno stati una trentina, ma non hanno avuto grossi problemi con la popolazione. Noi lavoramo per loro. A me quando me chiamavano, mandavo sempre qualcun altro al posto mio. Quelle colte che si sono andato o mi portavano a caricare le armi giu asi depositi .. altri lavoravano per caricare il pane sui camion per Cassino”
“Io con mio fratello abbiamo portato le munizioni al fronte di Cassino… eravamo OBBLIGATI. Il Comune ci mandava le lettere e ci trovavamo alla Puorta. I tedeschi ci portavano al deposito di Valmontone che era ttutto coperto de frasche. Li riempivamo i camion e riprativamo..