Sotto le rovine del Palazzo Bernardini, nei pressi della chiesa di Sant’Anotonio, erano periti due giovani sposi: Cristofari Mario e Maria Norca. Avevanoun bambino, Aldo, di appena sei mesi. Le loro salme vennero pietosamente raccolte sotto le rovine e composte nelle bare nei giorni seguenti. Del piccolo Aldo, nessuna traccia. si fecereo affannose ricerche: nulla, nessuno seppe darne notizie. Sei anni dopo, una giovane che prestava servizio presso l’orfanotrofio di Via Fabbrizi, in Roma, comunicava ai parenti che il 23 Gennaio 1944 era stato ricoverato nell Ístituto un bambino biondo, dagli occhi azzurrri, raccolto presso le rovine di una casa di Palestrina. I congiunti del piccolo Aldo si affrettarono a raggiungere l’Orfanotrofio e riconscevano nel fanciullo il bambino scomparso che nel frattempo era stato alle cure dei coniugi Campi. Quali mani pietose avevano raccolto il bambino, che vagiva tar le rovine, e lo avevano portato nel io luogo? forse un soldato germanico aveva pensato ai suoi bimbi lintani ed aevva salvato la piccola vittima? “
SALIMMO FINO ALLE NUBI
Si cercava un rifugio:
« Si pensò di salire ancora piu in alto – narra Giovanni Anelli – sulle montagne su un borgo di poche case e qualche centinaio di anime. Andammo in cerca di abitazione lassu’, prima i giovani. Marcia di crica due ore. Salimmo, salimmo fino alle nubi a circa milleduecento metri. Spettacolo meraviglioso! Diecine di cittadine, paesetti, borghi, villaggi si scorgevano sul piano appollaiati sui colli, a cavaliere delle valli. Lontano il tuonare del cannone; sapevamo dello sbraco sulla costa di Nettuno e di Anzio; una cinquantina di chilometri in linea d’aria, da noi. Un rombo di motore ci fece volgere di scatto e cosa strana, i bambini sulla stradina alta del paesino salutavano i piloti americani agitando le braccia, tranuiqlli! Era il 30 gennaio 1944.
Ci precipitammo dai nostri e narrammo. Ambiente tranquillo, acqua piovana, una casetta con soffitto da rifugiarci in 15 persone e roccie, roccie, roccie. Cominciò il via vai di muli, dei somarelli con qualche materasso, coperte, oggetti casalignhi e viveri. Il borgo deserto si popolò di povera gente senza tetto e di altra povera gente che divise coi nuovi arrivati il suo pezzo di pane nero, la sua acqua piovana e poi neve su neve. In soffitta, fu impossibile dormire. La neve ricopriva il nostro giaciglio, si trovò un’altra casa: era di un tubercolitico! Dopo pochi giorni, un’altra ancora, se non si voleva finir male. Trovato! Era una stanzetta osservatorio del curato, con aereometri, pluviometri ed acqua che filtrava da tutte le parti».
SI GIOCAVA ALLA VITA
La vita delgi sfollati si svolgeva sempre tra I pericoli piu gravi; si giocava sempre la vita. La nostra famiglia, insieme a quella di un nostro fratello sfollato da Littoria, si era rifugiata sui monti nel podere di un parente .. a Valenza. Dopo alcuni giorni, quando fummo certi che le cose si sarebbero protratte per molto tempo, pensammo ad un luogo che ofrisse quclhe comodita. Avevamo notato che gli aerei sorvolavano il paesello di Rocca di Cave quasi senza curarsene. Pensammo che sarebbe stato un buon rifugio. All’alba di una limpida mattina dei primi di Febbraio partirono alla volta del paese alpestre nostro fratello e nostro figlio Gianni, appena quinicenne, per accertarsi che lassu si stesse tranquilli…Tornarono entusiasti: nel borgo montano regnava la massima tranquillita, viverei sufficienti, case ospitali e tutti ci conoscevano. Si decise di tarsferirci l’indomani nel piccolo centro, ove nostro fratello, il giorno innanzi, aveva affittato un appartamento di nuova costruzione. La piccola carovana partì all’alba del giorno successivo: masserizie e bambini su di un carro, gli adulti a piedi. Li accompagnava Giuliano, un giovane nipote robusto e pieno di coraggio. Noi li avremmo raggiunti nei giorni appresso. Gianni non volle seguirli; alla strada rotabile preferi’ la mulattiera per la quale avrebbe raggiunto Rocca di cave nel pomeriggio. Alle tredici circa, infatti, accompagnammo, insieme alla zia Maria, il giovanetto fino all’inizio della boscaglia, che digrada sul torrente sotto la torre bianca posta sulla collina che domina il podere Clementi. Ci fermammo in una radura da dove si osservava un buon tratto della mulattiera al di la del letto sassoso. Si era d’accordo che Gianni, giunto sotto un grosso castagno, avrebbe fatto un cenno convenzionale.
Attendemmo qualche tempo. poco dopo udimmo un crepitar di fucilate e qualche tonfo di bombe a mano. Trasalimmo e pensammo che il giovane sarebbe tornato indietro. Rimanemmo fine all’imbrunire. Nulla
La mattina successiva, all’alba, come d’accordo, nostro nipote Giuliano si avvio’ al piccolo al piccolo borgo per recar degli oggetti allo zio. Circa mezzogiorno torno’ annunciandoci che non era potuto penetrare nel paese, perche’ circondato dai tedeschi. La notizia ci sconvolse: immediatamente ci avviammo per la mulattiera verso Rocca di cave, senza pensare che al pericolo che incombeva sui cari. Ci precedeva Giuliano.
Mentre, incuranti della fatica, salivamo per l’erta, vedemmo una fila di automezzi tedeschi che scendevano lentamente per la carrozzabile, che dal luogo montano conduce a Cave. Pensammo che tutto fosse finito: quegli autocarri certamente trasportavano chi sa dove i giovani rinvenuti nel paese. Giunti ai piedi dell’ultimo tratto della mulattiera vedemmo sopra di noi affacciarsi dalle rocce Giuliano e Gianni, che ci raggiunsero subito. Tornammo al casolare che il sole era gia’ tramontato.
Gianni raccontò. Mentre attraversava la boscaglia, aveva inteso i colpi ed era stato incerto se proseguire o tornare indietro. Era ricorso al gettito di una moneta: secondo l’emblema che sarebbe apparso, avrebbe continuato o avrebbe preso la via del ritorno. Secondo indicò la sorte, andò innanzi evitando la mulattiera e, per sentieri appena tracciati tra le rocce, raggiunse Rocca di cave.
Giunto nei pressi dell’abitato, incontrò alcuni giovani che fuggivano, inseguiti dai tedeschi che sparavano contro di loro. Scavalcarono il muro di cinta del cimitero, li segui; si calarono in una tomba ed egli con loro. La pietra rimossa ricadde sui fuggiaschi, che si trovarono tra le bare. Sulle teste si sentiva il calpestio dei tedeschi che li cercavano affannosamente. A notte alta, quando non si sentivano piu’ i rumori, i giovani uscirono dal macabro rifugio ed egli si avvio’ verso la casa ove era lo zio…
SPEGNEVANO TUTTE LE STELLE del CIELO..
.. i tedeschi, anche se cominciavano a dare segni di voler “togliere le tende”, assicurandosi la sicurezza di una zona di transito verso nord ed evacuando quasi totalmente il paese, continuavano nella loro “operazione Todt”. Questa consisteva nel reclutare tra la popolazione, quasi sempre attraverso rastrellamenti più o meno imponenti poiché la maggior parte degli inviti (anche allettanti) non producevano alcun effetto, persone idonee al lavoro.
La manodopera forzata, veniva per la maggior parte spostata proprio al fronte, parte di questa, era inoltre destinata allo scarico – carico di munizioni che dalle retrovie (e Palestrina ne era una di vitale importanza) venivano spedite in prima linea.
L’ultimo giorno per la presentazione dei giovani al servizio obbligatorio al lavoro, era scaduto il 25 settembre 1943, ma quelli che spontaneamente andarono a lavorare con i tedeschi, lo fecero soltanto alcuni mesi dopo: a dicembre e gennaio. Questi giovani venivano caricati nella piazza centrale del paese su dei camion e, per la maggior parte, inviati in una casa colonica situata lungo la strada che unisce Palestrina a Valmontone; qui divisi in gruppetti di cinque o sei erano per lo più addetti allo scarico – carico delle munizioni che erano destinate al fronte.
Le persone che lavoravano per i nazisti, non potevano essere considerati dei collaborazionisti, ma in un periodo di sofferenza e fame, dovevano in qualche modo sopravvivere e fu così che il lavoro per i tedeschi divenne un’opportunità per andare avanti, dato che molti mestieri, che prima garantivano un sostentamento, ora era impossibile farli per mancanza di richiesta o di materie prime.
Infatti molti giovani, ormai stanchi di nascondersi, privi di sostentamento per sé e per le loro famiglie, videro nel lavoro ben retribuito dai tedeschi (i lavoratori percepivano oltre al vitto, lo stesso dei militari germanici, cinquanta lire e cinque sigarette al giorno), un modo per tirare avanti in una situazione al limite della povertà e della fame.
La maggior parte delle storie di queste persone sono state portate via dal fiume del tempo, dimenticate; ma la storia di due ragazzi Luigi Del Monaco e Luigi Consoli, si sono impresse a fuoco nella storia di Palestrina e nella mente dei cittadini, che ancora oggi li ricordano con viva commozione.
Luigi Consoli, sorpreso dopo l’8 settembre a Palestrina, poiché era in convalescenza per una pleurite contratta mentre come fante era di stanza a Foggia, era rimasto, come sarto, senza lavoro e, stanco di nascondersi ai continui rastrellamenti, per non gravare sulla famiglia, che comprendeva altri due fratelli minori, decise di andare a lavorare per i tedeschi.
Lo stesso fece, insieme ad altri ragazzi, il suo collega, amico e coetaneo (aveva come il Consoli ventuno anni), Luigi Del Monaco. Quest’ultimo era originario di Maddaloni, ma ormai viveva da tempo con la sua famiglia a Palestrina.
I due ragazzi vennero impiegati nello scarico e carico di grossi proiettili di cannone e munizionamenti vari lungo la strada che Palestrina – Valmontone; infatti qui, come abbiamo avuto modo di sottolineare, nella zona di Quadrelle, presso il casale di Finzi, c’era un grande deposito tedesco .
Questo deposito, che veniva rifornito di armi e munizioni provenienti dalla stazione ferroviaria di Palestrina situata sulla linea Roma – Napoli, era molto importante per il sostentamento della macchina bellica nazista attestata sulla “Gustav” a Cassino.
Molte di queste munizioni inviate al fronte risultavano difettose, non esplodevano e questo insospettiva e preoccupava i tedeschi, che ormai la prolungata guerra aveva messi alle strette.
Il difetto (la manomissione, ovviamente) di questi armamenti si produceva a Quadrelle: i due giovani, infatti, svuotavano della polvere le sacchette di seta – per impossessarsene – che servivano da carica di lancio per le grosse bombe .
I due giovani vennero colti sul fatto e immediatamente arrestati, furono condotti e rinchiusi in una stanza del casale sotto la grave accusa di sabotaggio.
Lo stesso giorno in cui Consoli e Del Monaco vennero arrestati, la Gestapo fece irruzione nelle loro case alla ricerca di prove della sistematicità dei loro sabotaggi, ma non trovarono nulla.
Le prove che inchiodarono i due giovani vennero rinvenite nella casa colonica della fidanzata (prima interrogata e poi rilasciata) di Luigi Consoli.
In questa abitazione, dopo un’attenta perquisizione, i tedeschi trovarono degli indumenti intimi fatti con la stessa seta delle cariche che venivano sottratte dalle bombe.
Il Bandiera riporta un’interessante tesi riguardo la situazione di uno dei due ragazzi:
“Almeno per il Consoli è da ritenere che ci sia stata l’intenzione di sabotare, e questo non tanto per ciò che risulta dai documenti ufficiali rimessi dal Comitato di liberazione di Palestrina alla commissione regionale per il riconoscimento di partigiani e patrioti, quanto per la testimonianza di un suo amico vivente: ‘…non solo prendemmo quella seta, ma asportammo anche molte bombe a mano per darle a quelli del Gruppo Patrioti Preneste’ ”.
Dopo che i genitori dei giovani tentarono, contattando lo stesso giorno dell’arresto l’ex datore di lavoro dei loro figli, di rimediare alla difficile situazione, dovettero rendersi conto che c’era poco da fare: l’accusa di sabotaggio era un grave reato per i tedeschi.
Ogni giorno le stesse famiglie, tramite fratelli o sorelle dei prigionieri, inviavano qualcosa da mangiare ai ragazzi tenuti sempre prigionieri nel casale.
Durante la loro detenzione (erano passati pochi giorni dal loro arresto) avvenne il primo bombardamento di Palestrina (22 gennaio 1944).
In quel bombardamento, che colpì il centro del paese, rimasero uccisi padre, tre sorelle, cognato e due nipoti di Del Monaco, già orfano di madre.
Il giorno dopo i due vennero a sapere cosa era successo, Del Monaco era disperato.
I giovani chiesero al maresciallo tedesco di poter essere portati al paese per prestare soccorso ai parenti e scavare tra le macerie per almeno rinvenire i corpi .
La loro richiesta venne accolta e gli fu concesso di recarsi a Palestrina.
I giovani vennero accompagnati, per tutto il tragitto che fecero a piedi, da un militare armato di pistola.
Anche se qualcuno gli suggerì e tra loro si suggerirono la fuga i due, chi perché distrutto dalla perdita della famiglia, chi per non mettere in pericolo la propria , non fuggirono ed andarono così incontro al loro destino.
Verso la fine di gennaio, Enrico, fratello minore del Consoli, si recò come era sua abitudine, dove erano tenuti prigionieri i giovani: non lì trovò più e i soldati non gli diedero alcuna notizia.
La famiglia non seppe più nulla.
Soltanto dopo molto tempo furono informati di quello che era accaduto, tramite una lettera recapitata alla famiglia Consoli. Quella lettera era stata scritta dal parroco della chiesa della S.S. Annunziata di Tagliacozzo (AQ), Don Luigi Lucidi.
Ecco la rievocazione che, di quel tragico fatto, fece il parroco il primo maggio 1945 e che viene riportata da Luigi Bandiera nel libro 11 + 11 l’eccidio degli “undici martiri” di Palestrina ed altri avvenimenti del 1944:
“Un rito sacro di religione e di patriottismo ci ha chiamati in questo primo giorno di maggio davanti a questo monumento,dove da oggi in poi sono incisi due nuovi nomi: Luigi Consoli e Luigi Del Monaco, che accrescono l’albo glorioso dei nostri caduti.
A questo rito che parla da se stesso al cuore di noi tutti, a me sacerdote e italiano, che i due giovani ho assistito, è stato affidato il compito delicato ed emozionante di rievocare il loro sacrificio estremo.
Non sono qui a fare dell’epopea ma una semplice cronistoria del fatto.
Entrambi, i cittadini di Palestrina, per quanto il Del Monaco fosse nato a Maddaloni, sembra che una sorte comune li abbia voluti legati per la vita e per la morte.
Alla costituzione fisica piuttosto robusta e al carattere cupo, melanconico e taciturno di Del Monaco,faceva riscontro la salute infermiccia e la semplicità, starei per dire, fanciullesca del Consoli.
Quale sia stato il nostro incontro di quella notte tragica, né io né loro potremmo mai dimenticare. La mia preoccupazione, la mia perplessità ed ansia sul modo di contenermi e sulle parole da rivolgere loro fu presto dissipata, perché tra noi tre si stabilì immediatamente una corrente di simpatia, di amicizia, di fratellanza che diede loro la forza della rassegnazione cristiana ed a me di saperli cristianamente assistere. Grande ministero quello del sacerdote che, unico, sa dare il conforto anche a chi, nel fiore della vita è trascinato innocente, come erano i due giovani a morte violenta!
Poiché erano legati,riuscii a farli sciogliere e dividere per ascoltare la loro confessione, che fecero con la maggiore serenità di spirito e con edificante pietà ricevettero pure la Santa Comunione.
Saremmo voluti restare a lungo a colloquio, ma la rabbia nazista, che già più volte aveva insistito di deciderci, alla fine ruppe ogni indugio, e si dové andare.
scii per primo, mentre i giovani venivano nuovamente legati e fattomi avanti a più tedeschi che attendevano sulla porta, volli patrocinare la loro causa.
Ma uno di loro, dandomi a leggere la sentenza emessa dal tribunale militare tedesco di Tagliacozzo il 30 gennaio e la domanda di grazia respinta e firmata da Kesserling, aggiunse: «Ecco è inappellabile ».
E lo fu realmente, perché a nulla valsero le preghiere, le suppliche le lagrime, a nulla il tentativo di fuga del Consoli che cadde presto sulla neve, non certo per mancanza di forze, ma quasi fulminato dalla viltà di chi dietro gli grido: «Vigliacco, ora il momento è solenne» :
Consoli, bendato, e già legato al palo. Mentre c’è chi spavaldamente gli legge la sentenza e poi passa a dare le ultime istruzioni al plotone di esecuzione,egli ha la testa reclinata sul mio petto e risponde alle preghiere che gli suggerisco: alla domanda se abbia ancora qualche cosa da dire e da far sapere ai suoi famigliari, risponde: «Di’ alla mia famiglia che l’ho sempre amata e più l’amerò presto in Cielo. Lo stesso di’ alla mia fidanzata. Padre, io sono innocente; accetto la morte in sconto delle mie e delle colpe di tutti gli italiani».
Un’ ultima prece, un ultimo bacio sulla fronte di un fanciullo e la mitraglia lo rende cadavere.
Ma nel cielo echeggia un grido, l’ultimo suo grido «Dio mio bello», non spento neppure dalla voce disumana di chi volle profanare quell’istante solenne con l’insulto«Giustizia è fatta»…
Allo stesso palo seguì Del Monaco, che senza un lamento, abbracciò la morte con la fortezza dei martiri e degli eroi.
Le prime luci del 23 febbraio 1944 spegnevano in quel momento tutte le stelle del cielo….
IL MATRIMONIO..
…” Ai tempi della seconda guerra mondiale, quando i tedeschi presidiavano Gallicano, a tutti i giovani fu spedita la lettera per andare a combattere; altri venivano reclutati sempre dai tedeschi per raccogliere le armi sparse nei paesi vicini e portarle a Cassino poi venivano riaccompagnati a Gallicano la sera. Per questo, per alcuni anni, il paese fu abitato soprattutto da donne, bambini, alcuni uomini e anziani. La situazione economica non era bella; erano i tedeschi a stabilire le regole, anche riguardo il cibo e l’abbigliamento; si mangiava soprattutto cibo in scatola e i tedeschi per consegnarci una pagnotta di pane nero da 2 kg volevano in cambio sei uova. Per l’intera giornata ci assegnavano 1 etto di pane e ogni mese tre kg di pasta. Le donne vestivano con una gonna nera lunga e una camicia bianca; ci fu un
periodo in cui non si poteva indossare l’oro, l’argento e altri gioielli perché dovevano essere consegnati alla Patria. Io mi sposai nel ‘44, avevo appena 18 anni, il matrimonio andò bene nonostante ci fossero pochi soldi, ma a quell’epoca il vestito da sposa non lo si comprava ma si tramandava da generazioni; a me lo prestò
mia cognata: era un bel vestito verde! Prima della cerimonia lo sposo, insieme ai parenti, doveva andare a prendere la sposa e poi tutto il corteo si avviava in chiesa per la celebrazione del rito; la cerimonia avvenne nell’attuale chiesa di Sant’Andrea, ma non all’altare maggiore bensì dentro la cappella
della Madonna delle Grazie .Gli ospiti venivano invitati solo il giorno prima senza tante formalità e alla fine della cerimonia agli sposi non veniva lanciato il riso ma i fagiolini bianchi. La cerimonia avvenne di sabato, ci riunimmo tutti quanti per festeggiare; mio padre aveva preparato il sugo con la carne di pecora e mia madre, che era una cuoca e cucinava per i tedeschi che erano di stanza a San Pastore, prese un po’ di alimenti dalla loro dispensa e preparò la pasta; per il rinfresco c’era anche la cioccolata ed i confetti, molte cose vennero comprate anche a “ borsa nera”; mio cognato insieme al padre invece portarono un bel po’ di vino. Mentre stavamo festeggiando entrarono i militari tedeschi che si autoinvitarono e festeggiarono con noi senza crearci problemi, ma facendo un grande baccano. Del
resto il rapporto tra le famiglie di Gallicano, 700 circa, gli ufficiali, sottoufficiali e soldati semplici tedeschi era buono perché i cittadini erano molto obbedienti ai comandi e rispettosi, per questo non ci furono problemi neanche dopo l’armistizio…
UNA COSA DA IMPAZZIRE..
Intervista ai familiari della famiglia Pignotti e ricoscimento delle salme (Umberto e Angelo)
LIDIA
Lidia Ciccognani e il marito erano in contatto con il Comitato Liberazione CLN. Dopo l’arresto di Emilio D’Amico nel novembre del ’43 , Lidia ed Enrico lasciarono Genazzano per poi tornarvi a marzo del ’44. Ospitarono in casa il commando di paracadutisti, in tutto dieci uomini, con a capo Alfredo Michelagnoli, un ufficiale arruolato per organizzare servizi di collegamenti ed informazioni agli alleati. Tra le sue piu’ importanti operazioni ricordiamo l’individuazione del deposito di armi tedesco a Valmontone poi bombardato ed il dislocamento di prigionieri sovietici pronti a combattere con gli alleati, da Monterotondo nelle nostre zone. Dal libro “MISSIONE ANZIO” di MICHELAGNOLI
“Paliano è l’ultimo paesino della provincia di Frosinone: noi dobbiamo raggiungere Genazzano che è il primo paese della provincia di Roma, dove progetto di stabilire una delle nostre prime basi operative… Il mio recapito qui è nella casa di Lidia Ciccognani, una donna sicura e coraggiosa che ci è stata anche in seguito di inestimabile aiuto. Basti pensare che si è recata a Roma decine di volte con messaggi segreti facendosi trasportare perfino da automezzi tedeschi di passaggio, e sfidando ogni volta una morte sicura.”
IL COCOMERO
intervista a Eleonora Pratesi sulle ristrettezze ai tempi della guerra
IL MISSIONARIO
intervista a Turella – classe 1913. originario di Paliano parrocco di Castel San Pietro (RM), per circa mezzo secolo.
IL NAUFRAGIO
Pochi conoscono sorte nave ORIA. A bordo più di 4000 prigionieri italiani che si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla RSI dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, 90 tedeschi di guardia o di passaggio e l’equipaggio norvegese. Si salvarono solo in 22, tra loro Sordi Pietro di Gallicano. “L’8 settembre 1943 ero in servizio militare in forza al 312° Battaglione Carristi, Compagnia Moto Mitraglieri, dislocato nell’isola di Rodi. Dall’8 al 12 settembre ho combattuto contro i tedeschi, precisamente in località chiamata Centrale. Venni fatto prigioniero e internato nel campo di Trianda. L’11 febbraio venni imbarcato su una nave norvegese per essere deportato in Germania. Arrivò l’ordine di partire dal Monte Luca. Partimmo il giorno 9 febbraio per raggiungere il campo di Asguro, dove sostammo solo due giorni, da lì ordine di imbarco. Il campo di concentramento di Asguro dista dal Porto di Rodi circa 6 km, con lo zaino in spalla, la coperta e il telo da tenda rotolato ed appeso lungo lo zaino, ci mettemmo in cammino, dopo qualche ora ci trovammo nel piazzale del porto commerciale di Rodi, 4032 italiani, dopo pochi minuti fummo imbarcati, cioè, “imbarattati” come le sardelle, in una nave da carico di circa quattromila tonnellate di cui non ricordo più il nome, ma sentì dire che era una nave norvegese. Messi uno sopra l’altro con furia e forza da certi disgraziati tedeschi, che per sollecitare e mandarne più del carico, ti accompagnavano per le due scalette di legno che dalla coperta scendevano in stiva, quei galantuomini che v’ho parlato poc’anzi, ci levarono le due scalette di legno rimanendo con un buco di circa due metri quadrati per respirare. Completato il carico anche nella coperta della nave, arrivammo alle ore 16, pochi minuti dopo la nave lasciò la banchina, dando noi tutti l’ultimo addio alla bella cittadina e all’isola maledetta di Rodi. L’11 febbraio era una serata grigia e nuvolosa, il vento gelido fischiava attraverso gli alberi della nave, intanto il mare gonfiava sempre più, arrivati al largo del porto la nave cominciò a fare l’altalena e lì “salvato o popolo” dov’ero io in stiva, uno rigettava sulle ginocchia del compagno, l’altro sulla spalla, il terzo sbuffava sulla faccia del compagno mentre dall’alto ci arrivavano pezzi di gallette, sugo di scatolette in acidità. Tutta la nave era piena di singhiozzi, di lamenti di dolore. Il naufragio avvenne a causa della gran burrasca trovata in mare, e il comandante capitano tedesco sbagliò rotta ed andò a cozzare contro uno scoglio dell’isola. Dopo che le acque mi buttarono alla riva della costa greca, i tedeschi mi presero e mi portarono al campo di concentramento di Gudì (Atene) compresi gli altri superstiti. Sballottato da un campo di concentramento a un altro, finalmente fui liberato dai partigiani dell’ELA nella cittadina di Larisa. Dai partigiani fummo passati alla Croce Rossa, dalla Croce Rossa agli inglesi. Rimpatriai a Taranto il 3 marzo 1945 dalla cittadina di Volo…” Pietro Sordi, Gallicano nel Lazio, 22 giugno 1921 – 4 maggio 1989