.. i tedeschi, anche se cominciavano a dare segni di voler “togliere le tende”, assicurandosi la sicurezza di una zona di transito verso nord ed evacuando quasi totalmente il paese, continuavano nella loro “operazione Todt”. Questa consisteva nel reclutare tra la popolazione, quasi sempre attraverso rastrellamenti più o meno imponenti poiché la maggior parte degli inviti (anche allettanti) non producevano alcun effetto, persone idonee al lavoro.
La manodopera forzata, veniva per la maggior parte spostata proprio al fronte, parte di questa, era inoltre destinata allo scarico – carico di munizioni che dalle retrovie (e Palestrina ne era una di vitale importanza) venivano spedite in prima linea.
L’ultimo giorno per la presentazione dei giovani al servizio obbligatorio al lavoro, era scaduto il 25 settembre 1943, ma quelli che spontaneamente andarono a lavorare con i tedeschi, lo fecero soltanto alcuni mesi dopo: a dicembre e gennaio. Questi giovani venivano caricati nella piazza centrale del paese su dei camion e, per la maggior parte, inviati in una casa colonica situata lungo la strada che unisce Palestrina a Valmontone; qui divisi in gruppetti di cinque o sei erano per lo più addetti allo scarico – carico delle munizioni che erano destinate al fronte.
Le persone che lavoravano per i nazisti, non potevano essere considerati dei collaborazionisti, ma in un periodo di sofferenza e fame, dovevano in qualche modo sopravvivere e fu così che il lavoro per i tedeschi divenne un’opportunità per andare avanti, dato che molti mestieri, che prima garantivano un sostentamento, ora era impossibile farli per mancanza di richiesta o di materie prime.
Infatti molti giovani, ormai stanchi di nascondersi, privi di sostentamento per sé e per le loro famiglie, videro nel lavoro ben retribuito dai tedeschi (i lavoratori percepivano oltre al vitto, lo stesso dei militari germanici, cinquanta lire e cinque sigarette al giorno), un modo per tirare avanti in una situazione al limite della povertà e della fame.
La maggior parte delle storie di queste persone sono state portate via dal fiume del tempo, dimenticate; ma la storia di due ragazzi Luigi Del Monaco e Luigi Consoli, si sono impresse a fuoco nella storia di Palestrina e nella mente dei cittadini, che ancora oggi li ricordano con viva commozione.
Luigi Consoli, sorpreso dopo l’8 settembre a Palestrina, poiché era in convalescenza per una pleurite contratta mentre come fante era di stanza a Foggia, era rimasto, come sarto, senza lavoro e, stanco di nascondersi ai continui rastrellamenti, per non gravare sulla famiglia, che comprendeva altri due fratelli minori, decise di andare a lavorare per i tedeschi.
Lo stesso fece, insieme ad altri ragazzi, il suo collega, amico e coetaneo (aveva come il Consoli ventuno anni), Luigi Del Monaco. Quest’ultimo era originario di Maddaloni, ma ormai viveva da tempo con la sua famiglia a Palestrina.
I due ragazzi vennero impiegati nello scarico e carico di grossi proiettili di cannone e munizionamenti vari lungo la strada che Palestrina – Valmontone; infatti qui, come abbiamo avuto modo di sottolineare, nella zona di Quadrelle, presso il casale di Finzi, c’era un grande deposito tedesco .
Questo deposito, che veniva rifornito di armi e munizioni provenienti dalla stazione ferroviaria di Palestrina situata sulla linea Roma – Napoli, era molto importante per il sostentamento della macchina bellica nazista attestata sulla “Gustav” a Cassino.
Molte di queste munizioni inviate al fronte risultavano difettose, non esplodevano e questo insospettiva e preoccupava i tedeschi, che ormai la prolungata guerra aveva messi alle strette.
Il difetto (la manomissione, ovviamente) di questi armamenti si produceva a Quadrelle: i due giovani, infatti, svuotavano della polvere le sacchette di seta – per impossessarsene – che servivano da carica di lancio per le grosse bombe .
I due giovani vennero colti sul fatto e immediatamente arrestati, furono condotti e rinchiusi in una stanza del casale sotto la grave accusa di sabotaggio.
Lo stesso giorno in cui Consoli e Del Monaco vennero arrestati, la Gestapo fece irruzione nelle loro case alla ricerca di prove della sistematicità dei loro sabotaggi, ma non trovarono nulla.
Le prove che inchiodarono i due giovani vennero rinvenite nella casa colonica della fidanzata (prima interrogata e poi rilasciata) di Luigi Consoli.
In questa abitazione, dopo un’attenta perquisizione, i tedeschi trovarono degli indumenti intimi fatti con la stessa seta delle cariche che venivano sottratte dalle bombe.
Il Bandiera riporta un’interessante tesi riguardo la situazione di uno dei due ragazzi:
“Almeno per il Consoli è da ritenere che ci sia stata l’intenzione di sabotare, e questo non tanto per ciò che risulta dai documenti ufficiali rimessi dal Comitato di liberazione di Palestrina alla commissione regionale per il riconoscimento di partigiani e patrioti, quanto per la testimonianza di un suo amico vivente: ‘…non solo prendemmo quella seta, ma asportammo anche molte bombe a mano per darle a quelli del Gruppo Patrioti Preneste’ ”.
Dopo che i genitori dei giovani tentarono, contattando lo stesso giorno dell’arresto l’ex datore di lavoro dei loro figli, di rimediare alla difficile situazione, dovettero rendersi conto che c’era poco da fare: l’accusa di sabotaggio era un grave reato per i tedeschi.
Ogni giorno le stesse famiglie, tramite fratelli o sorelle dei prigionieri, inviavano qualcosa da mangiare ai ragazzi tenuti sempre prigionieri nel casale.
Durante la loro detenzione (erano passati pochi giorni dal loro arresto) avvenne il primo bombardamento di Palestrina (22 gennaio 1944).
In quel bombardamento, che colpì il centro del paese, rimasero uccisi padre, tre sorelle, cognato e due nipoti di Del Monaco, già orfano di madre.
Il giorno dopo i due vennero a sapere cosa era successo, Del Monaco era disperato.
I giovani chiesero al maresciallo tedesco di poter essere portati al paese per prestare soccorso ai parenti e scavare tra le macerie per almeno rinvenire i corpi .
La loro richiesta venne accolta e gli fu concesso di recarsi a Palestrina.
I giovani vennero accompagnati, per tutto il tragitto che fecero a piedi, da un militare armato di pistola.
Anche se qualcuno gli suggerì e tra loro si suggerirono la fuga i due, chi perché distrutto dalla perdita della famiglia, chi per non mettere in pericolo la propria , non fuggirono ed andarono così incontro al loro destino.
Verso la fine di gennaio, Enrico, fratello minore del Consoli, si recò come era sua abitudine, dove erano tenuti prigionieri i giovani: non lì trovò più e i soldati non gli diedero alcuna notizia.
La famiglia non seppe più nulla.
Soltanto dopo molto tempo furono informati di quello che era accaduto, tramite una lettera recapitata alla famiglia Consoli. Quella lettera era stata scritta dal parroco della chiesa della S.S. Annunziata di Tagliacozzo (AQ), Don Luigi Lucidi.
Ecco la rievocazione che, di quel tragico fatto, fece il parroco il primo maggio 1945 e che viene riportata da Luigi Bandiera nel libro 11 + 11 l’eccidio degli “undici martiri” di Palestrina ed altri avvenimenti del 1944:
“Un rito sacro di religione e di patriottismo ci ha chiamati in questo primo giorno di maggio davanti a questo monumento,dove da oggi in poi sono incisi due nuovi nomi: Luigi Consoli e Luigi Del Monaco, che accrescono l’albo glorioso dei nostri caduti.
A questo rito che parla da se stesso al cuore di noi tutti, a me sacerdote e italiano, che i due giovani ho assistito, è stato affidato il compito delicato ed emozionante di rievocare il loro sacrificio estremo.
Non sono qui a fare dell’epopea ma una semplice cronistoria del fatto.
Entrambi, i cittadini di Palestrina, per quanto il Del Monaco fosse nato a Maddaloni, sembra che una sorte comune li abbia voluti legati per la vita e per la morte.
Alla costituzione fisica piuttosto robusta e al carattere cupo, melanconico e taciturno di Del Monaco,faceva riscontro la salute infermiccia e la semplicità, starei per dire, fanciullesca del Consoli.
Quale sia stato il nostro incontro di quella notte tragica, né io né loro potremmo mai dimenticare. La mia preoccupazione, la mia perplessità ed ansia sul modo di contenermi e sulle parole da rivolgere loro fu presto dissipata, perché tra noi tre si stabilì immediatamente una corrente di simpatia, di amicizia, di fratellanza che diede loro la forza della rassegnazione cristiana ed a me di saperli cristianamente assistere. Grande ministero quello del sacerdote che, unico, sa dare il conforto anche a chi, nel fiore della vita è trascinato innocente, come erano i due giovani a morte violenta!
Poiché erano legati,riuscii a farli sciogliere e dividere per ascoltare la loro confessione, che fecero con la maggiore serenità di spirito e con edificante pietà ricevettero pure la Santa Comunione.
Saremmo voluti restare a lungo a colloquio, ma la rabbia nazista, che già più volte aveva insistito di deciderci, alla fine ruppe ogni indugio, e si dové andare.
scii per primo, mentre i giovani venivano nuovamente legati e fattomi avanti a più tedeschi che attendevano sulla porta, volli patrocinare la loro causa.
Ma uno di loro, dandomi a leggere la sentenza emessa dal tribunale militare tedesco di Tagliacozzo il 30 gennaio e la domanda di grazia respinta e firmata da Kesserling, aggiunse: «Ecco è inappellabile ».
E lo fu realmente, perché a nulla valsero le preghiere, le suppliche le lagrime, a nulla il tentativo di fuga del Consoli che cadde presto sulla neve, non certo per mancanza di forze, ma quasi fulminato dalla viltà di chi dietro gli grido: «Vigliacco, ora il momento è solenne» :
Consoli, bendato, e già legato al palo. Mentre c’è chi spavaldamente gli legge la sentenza e poi passa a dare le ultime istruzioni al plotone di esecuzione,egli ha la testa reclinata sul mio petto e risponde alle preghiere che gli suggerisco: alla domanda se abbia ancora qualche cosa da dire e da far sapere ai suoi famigliari, risponde: «Di’ alla mia famiglia che l’ho sempre amata e più l’amerò presto in Cielo. Lo stesso di’ alla mia fidanzata. Padre, io sono innocente; accetto la morte in sconto delle mie e delle colpe di tutti gli italiani».
Un’ ultima prece, un ultimo bacio sulla fronte di un fanciullo e la mitraglia lo rende cadavere.
Ma nel cielo echeggia un grido, l’ultimo suo grido «Dio mio bello», non spento neppure dalla voce disumana di chi volle profanare quell’istante solenne con l’insulto«Giustizia è fatta»…
Allo stesso palo seguì Del Monaco, che senza un lamento, abbracciò la morte con la fortezza dei martiri e degli eroi.
Le prime luci del 23 febbraio 1944 spegnevano in quel momento tutte le stelle del cielo….